Il 21 marzo, a Padova, si è tenuto The Carraro Spirit, un evento organizzato per raccontare e per mettere in scena — i nuovi valori del Gruppo Carraro.
Ero entrata da poco come tirocinante da GereBros, e se qualcuno mi avesse chiesto di descrivere il mio ruolo in quelle prime settimane, avrei probabilmente risposto con “sto cercando di capirlo”.
Non avevo una mansione precisa, nessun cartellino da timbrare, nessuna scrivania con sopra il mio nome. Però avevo un portatile e la sensazione che il team GB faceva cose davvero interessanti!
C’era da costruire un evento da zero, con pochissimo tempo e un obiettivo chiaro ma complesso: raccontare i valori di un’azienda non in modo teorico o celebrativo, ma attraverso le persone. Quelle vere. Cinque valori, cinque video, cinque storie. E dietro a ogni storia, un lavoro enorme di ascolto, riscrittura. Niente attori, nessuna sceneggiatura forzata. Solo volti, parole e contesti da restituire nel modo più sincero possibile.
Ogni giorno arrivava qualcosa da fare, da seguire, da sistemare. Io cercavo il mio posto in mezzo a tutto questo, facendo cose diverse: leggere testi, rivedere una scaletta, controllare una parola, sistemare un’immagine, passare un cavo, preparare una stanza, osservare. All’inizio mi sembrava di fare poco. Poi, piano piano, ho cominciato a capire che anche stare in silenzio in un angolo è un modo per partecipare, se sai ascoltare.
Durante il primo briefing serio (quello in cui prendi appunti anche se non sai cosa scrivere), ho capito una cosa: da fuori sembra un evento, da dentro c’è un ecosistema di persone e ruoli incredibile.
La prima cosa di cui si è parlato è stato il video d’apertura. Un momento breve, all’inizio dell’evento, pensato per creare subito un clima, una sensazione che deve emozionare, colpire, creare un momento subito coinvolgente.
Ma il cuore del progetto non stava solo nei video. Stava nella costruzione di un racconto.
Renato, che avrebbe anche condotto l’evento, parlava della narrazione come di un filo continuo, invisibile, che attraversa tutto: le parole dette sul palco, i video, i silenzi, perfino il modo in cui qualcuno entra in scena.
Non si trattava solo di “presentare”. Si trattava di accompagnare il pubblico in un viaggio tra storie e persone. Tore si occupava della regia, Isabella dei contenuti visivi e narrativi, Giorgia e Cinzia dell’architettura dell’evento, di come ogni parte doveva combaciare con quella dopo. Ogni dettaglio veniva discusso, aggiustato, rifinito.
Eppure nessuno sembrava in affanno. Nessuno dava l’impressione di correre dietro alle cose. Si lavorava tanto, certo, ma si faceva con quella calma delle persone che sanno cosa conta e cosa no.
Arriva il giorno delle prove: treno per Padova, scaletta in borsa e la mente già proiettata su quel palco ancora vuoto che ci aspettava.
Quando siamo arrivati, la sala era in fase di allestimento ma già si percepiva l’ossatura dell’evento: i tecnici sistemavano i monitor, si parlava sottovoce nei microfoni, le luci venivano puntate e ripuntate, come in un set che si sta per accendere ma non è ancora pronto. Io osservavo tutto, cercando di capire quali fossero i ruoli, come si muovevano le persone, chi prendeva le decisioni e chi, invece, capiva al volo cosa fare senza bisogno di parlare. C’era un’energia precisa, fatta di concentrazione e piccole correzioni, come quando si provano i passaggi di un pezzo a orchestra, ognuno sul proprio spartito, ma tutti già connessi.
Le prove non erano “generali” nel senso che avevo sempre immaginato, quelle in cui si rifà tutto da capo con la speranza che fili tutto liscio. No, qui si provava a blocchi, pezzo per pezzo, riga per riga, entrata per entrata. C’era Tore, in regia, che sembrava vedere prima degli altri cosa sarebbe successo qualche secondo dopo, e c’era Renato sul palco, che dosava ogni parola, ricalibrava le pause, aggiustava i toni, come se stesse accordando uno strumento prima del concerto. E poi c’era tutto il resto della squadra: Isabella, Giorgia, Cinzia, ognuna con la sua parte da tenere viva, da far dialogare con le altre, in un continuo scambio che non aveva bisogno di essere esplicitato.
Io facevo quello che riuscivo: a volte prendevo appunti, a volte portavo un cavalletto, altre volte semplicemente guardavo e ascoltavo, sapendo che anche solo osservare da vicino quel processo era già un’occasione enorme. Quello che mi colpiva, più di tutto, era il modo in cui venivano prese le decisioni. Non c’erano grandi discorsi, né riunioni infinite. Bastava uno sguardo, un accenno, una domanda fatta nel momento giusto, e si andava avanti. C’era fiducia, non solo nei ruoli, ma nelle persone. E questa cosa, anche se non si insegna, si impara.
Dopo ore passate a provare ogni entrata, ogni transizione, ogni video, torniamo in hotel. A cena, ci sediamo tutti insieme. Non sembra una squadra di lavoro, sembra un gruppo che si conosce da sempre, anche se per alcuni era la prima volta. Ci scappano battute, aneddoti, risate un po’ stanche. Renato racconta di quando ha diretto un evento in cui è saltata la luce. Tore imita le “espressioni da regia sotto pressione”. Qualcuno racconta cosa ha notato durante le prove, qualcun altro si confonde tra le portate.
Era la vigilia dell’evento, ma nessuno sembrava voler parlare di quello che sarebbe successo il giorno dopo. Forse per scaramanzia, forse perché a volte le cose più importanti è meglio lasciarle sedimentare in silenzio. E quella cena, nella sua semplicità, è rimasta uno dei momenti più autentici. Non per quello che si è detto, ma per il modo in cui ci si stava insieme, con la stanchezza addosso e la consapevolezza di aver fatto, fino a lì, tutto quello che si poteva fare.
Quella sera ho capito che dietro ogni evento GereBros non c’è solo un’idea brillante. C’è un team che si conosce, si diverte e si fida e che riesce a ridere, anche quando l’indomani ci saranno 1.500 persone a guardarti. Una piccola cosa, forse. Ma fa tutta la differenza.
Il giorno ufficiale: e poi, tutto inizia (e nessuno può più fermarlo)
Ore 7:30: siamo già lì. Coffee break in sottofondo, atmosfera viva ma composta e la sala ancora mezza vuota ma già in fermento. I tecnici sistemavano gli ultimi dettagli, cavi, luci, microfoni. C’erano check audio in corso, qualcuno provava un ingresso, qualcun altro ripassava una battuta. Sembrava un teatro prima dell’alzata di sipario, solo che invece degli attori c’erano manager, colleghi, ospiti.
Io e Giusy (mia altra compagna di avventura tirocinante) che ci guardiamo attorno come a dire: “ma dove siamo finite?”, entrambe stavamo cercando di capire dove metterci, come muoverci, come essere utili senza intralciare.
Alle nove è cominciata l’accoglienza. Le persone arrivavano, parlavano piano, si guardavano intorno cercando punti di riferimento. C’era chi sorrideva educatamente, chi si salutava con una stretta di mano lunga, chi già iniziava a prendere i posti migliori. La sala si riempiva lentamente, senza fretta, come se l’evento si stesse accendendo da solo, minuto dopo minuto.
Alle 10:00 sale sul palco Mario Carraro. Il suo intervento apre il sipario.
Da lì in poi, tutto scorre: bridge narrativi curati da Renato, con il suo stile inconfondibile. Niente stacchi bruschi, niente TED-talk a compartimenti stagni. Qui ogni parte parlava con quella dopo. E io, pur conoscendo la scaletta a memoria, mi emozionavo lo stesso – anche perché ogni tanto qualcosa slittava:)
Dietro, la regia era un’orchestra operativa. Tutto si muoveva con una precisione che non saprei spiegare.
Tutti pronti a gestire modifiche in tempo reale, slittamenti, tempi che si accorciano o si allungano. Un work on going vero, flessibile, adattivo. Una cosa non da poco: nessuno ha perso la calma. E quando, in un punto critico, è volata una frase poco zen, ho visto applicare in diretta la famosa strategia GereBros: silenzio, pausa, risposta assertiva. Applausi interiori.
Il giorno dell’evento l’ho vissuto tutto: dal cavo sbagliato al “parte il video in tre, due, uno…”., a quando la musica ha invaso la sala, a quando i manager, dopo settimane di training con Renato, hanno detto la loro sul palco senza sembrare finti, ma neanche impacciati. Erano presenti, veri. E il pubblico se ne è accorto.
La morale della (mia) favola
📌 Un evento è come il teatro: si prova, si affina, si sbaglia (prima), poi si lancia il cuore oltre il mixer.
📌 Raccontare i valori di un’azienda non è noioso, se lo fai con chi ha un metodo narrativo vero.
📌 Anche da stagista, puoi fare la differenza. Anche solo ascoltando il silenzio in sala.
📌 Le luci non bastano. Serve una storia. E serve qualcuno che la sappia raccontare come fosse la sua.
L’ultima cosa (forse la più vera)
Non so se farò questo lavoro per sempre. Ma so che questa esperienza mi ha cambiato lo sguardo. Ora quando vedo un palco, vedo anche i cavi. Quando sento un discorso, penso a chi lo ha scritto. Quando parte un video, penso a chi ha detto “‘sta roba funziona” davanti a una timeline.
E penso che la mia prima volta, non poteva andare meglio di così.
Firmato: la stagista che non ha fatto le fotocopie, ma ha visto da vicino come si raccontano davvero i valori.